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Consumo sul posto – il TAR del Lazio respinge per infondatezza il ricorso della Fipe contro il Comune di Roma

Un ricorso quello della Fipe Confcommercio che tendeva ad alimentare una diatriba fine a se stessa tra operatori economici che invece hanno bisogno di semplificazione delle procedure, di misure di sostegno alle attività, di maggior flessibilità e chiarezza in materia di occupazione di suolo pubblico e dunque di unità per aumentare il proprio peso negoziale verso l’Amministrazione. Invece di proporre politiche di sviluppo si è preferito riportare il dibattito su questioni vecchie di anni.

Le contestazioni avanzate riguardavano le previsioni in materia di arredi utilizzabili, di tovaglioli e stoviglieria, di modalità di calcolo delle superfici, di bevande alcoliche volendo evidentemente determinare amministrativamente, come nei soviet, la libera capacità ed autonomia degli imprenditori di organizzare la propria attività nell’ambito della norma.

Il Giudice, accogliendo le tesi di controparte sostenute dall’avv. Andrea Ippoliti,  ha dovuto nuovamente ricordare ai ricorrenti che la ricostruzione operata “non tiene conto della disciplina risultante da ulteriori disposizioni contenute nello stesso corpo normativo, le quali continuano a porre significativi elementi di differenza tra le due diverse attività economiche, dall’altro non tiene conto del fatto che mediante le modifiche apportate con la delibera 49/2019 Roma Capitale si è dovuta conformare a puntuali indicazioni della giurisprudenza del Giudice di ultimo grado”.

Ed infatti, al fine di “individuare i rilevanti profili differenziali tra le due attività, occorre considerare” che si continua:

a)  prevedere il divieto, per i titolari delle attività di vendita del settore alimentare e delle imprese artigiane del settore alimentare che intendano attivare, nei locali situati nella Città Storica, il consumo sul posto, di destinare a tale attività una superficie interna calpestabile superiore al 25% della superficie totale dell’esercizio e comunque superiore a cinquanta metri quadrati;

b) a prevedere che gli arredi utilizzabili, sebbene abbinabili, devono essere “tali da non connotare un’organizzazione strutturale e funzionale del servizio comprovante l’esercizio di somministrazione alimenti e bevande”;

c) a rimarcare che la messa a disposizione della clientela di tovaglioli, stoviglierie e posate per un loro uso autonomo e diretto deve avvenire senza alcun tipo di assistenza da parte di personale;

d) a imporre che l’organizzazione dell’area destinata all’eventuale consumo sul posto, secondo la percentuale di cui al comma 1, avvenga in modo da non creare intralcio all’affluenza della clientela e che la consegna dei prodotti al banco, ritirati direttamente dal consumatore, avvenga senza svolgimento di alcun servizio assistito di somministrazione;

e) a continuare ad escludere l’utilizzo di attrezzature tipiche degli esercizi di somministrazione ivi comprese le apparecchiature per le bevande alla spina e macchine industriali per la preparazione del caffè.

Tutto ciò, in assenza di un vero e proprio servizio al tavolo da parte di personale impiegato nel locale, il mero consumo in loco del prodotto acquistato, sia pure servendosi materialmente di suppellettili ed arredi – anche dedicati – presenti nell’esercizio commerciale (ossia, in primis, tavoli e sedie, ma a rigore anche tovaglioli o stoviglie, la cui generale messa a disposizione per un uso autonomo e diretto di per sé non integra un servizio di assistenza al tavolo, ben potendo essere utilizzati anche dagli acquirenti che decidano di non fermarsi nel locale), non comporta un superamento dei limiti di esercizio dell’attività di vicinato.

Del resto, ricorda il Giudice, l’art. 3, comma f-bis) del d.l. 4 aprile 2006, n. 223, sopra riportato, inequivocabilmente precisa che l’attività di vicinato può porsi in essere “utilizzando i locali e gli arredi dell’azienda”, ossia innanzitutto – ed intuibilmente – tavoli e sedie, a prescindere dal fatto che queste siano collegate o meno ai primi.

Alla luce di ciò non trova quindi fondamento normativo né logico la pretesa, tra l’altro, di precludere l’abbinamento tra arredi, sedie e tavoli, posto da alcune circolari e risoluzioni del Ministero dello sviluppo economico. (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 8 aprile 2019, nr. 2280).

Per tutti questi motivi il TAR ha giudicato il ricorso infondato.